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Sarà la fine della globalizzazione?

Il Ministro dell’Economia Daniele Franco nel corso degli incontri del Fondo monetario internazionale ha dichiarato che «questo avrebbe dovuto essere un periodo di ripresa dopo la pandemia, ma ha preso una piega diversa per l’andamento dei prezzi dell’energia e l’invasione dell’Ucraina».
«Abbiamo confermato gli obiettivi per il disavanzo», intendendo che l’economia italiana continua comunque a crescere anche se in modo meno vivace a causa degli dagli eventi che caratterizzano l’attuale scenario internazionale. Quanto sta accadendo rappresenta una ulteriore riprova che la realtà globalizzata in cui viviamo, condiziona pesantemente la situazione dei singoli paesi ma anche delle famiglie e delle imprese.

Di tutto ciò avevamo avuto già evidenza con la crisi finanziaria del 2008 e gli effetti della pandemia di questi ultimi anni: viviamo in una epoca in cui in virtù della globalizzazione i cambiamenti tecnologici, economico-finanziari e geopolitici si susseguono e in tempi molto rapidi.
La globalizzazione ha accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica dei vari paesi, favorito attraverso gli scambi e la specializzazione produttiva la crescita dell’economia mondiale ma per contro rende vulnerabili rispetto ad eventuali crisi che si manifestano in qualche parte anche lontana del globo.

Proprio in conseguenza di ciò alcuni stanno interrogandosi sul suo futuro, tra questi ad esempio Larry Fink, ceo di Blackrock, che in una delle comunicazioni agli azionisti ha ipotizzato la fine del commercio globale così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.

In realtà iniziative volte a ridurre l’impatto della interconnessione globale sono già visibili nei piani di alcune imprese che stanno valutando il cosiddetto reshoring cioè il rientro nel Paese di origine di attività che erano state delocalizzati. Fenomeni spesso sostenuti dai governi che prevedono agevolazioni per incentivare questo fenomeno.
Parallelamente si assiste ad un ripensamento della catena di approvvigionamento delle materie prime e componenti accorciandola cercando di acquisire una maggiore autonomia o sicurezza privilegiando Paesi più vicini e stabili in senso economico e politico.

Certamente non è possibile immaginare e neanche auspicabile un processo drastico di de-globalizzazione almeno per tre ordini di motivi.
Il primo legato alla difficoltà di sostituire nel breve termine i fornitori trovandone nuovi in grado di garantire stessi costi e qualità o addirittura rilanciando settori che negli anni hanno subito un drastico ridimensionamento. Si pensi ad esempio alla produzione di microchip, la cui mancanza nei mesi scorsi ha messo in crisi l’industria automobilistica, attualmente il 54% della produzione mondiale è realizzata a Taiwan, mentre in Europa è solo del 9%. La commissione europea sta varando un piano di investimenti per arrivare a realizzare nel nostro continente entro il 2030 il 20% della produzione mondiale, per raddoppiare la produzione saranno comunque necessari otto anni.

Il secondo è legato alla entità talmente ampia della domanda globale di alcuni prodotti che è difficile ipotizzare di soddisfarla in un arco temporale di medio periodo attraverso le attività produttive rilocalizzate.

Infine anche se questo fosse possibile implicherebbe inevitabilmente un aumento dei costi di produzione legati all’aumento del costo del lavoro e delle materie prime

In ogni caso per i Paesi occidentali è fondamentale prendere velocemente atto che alcuni correttivi sono probabilmente indispensabili. In particolare, a livello europeo, è importante aumentare l’impegno per rafforzare la resilienza della nostra economia ampliando le sue capacità tecnologiche e produttive specie negli ambiti più strategici.
Speriamo che la dura lezione imparata a nostre spese ci consenta di uscire rafforzati, dato che questa volta non possiamo accontentarci del “ne usciremo!” così come è stato per la pandemia.

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